21 maggio, 2013 | di

iD Editor

iD Editor

Da alcuni giorni, come reso noto dalla notizia di lancio, sulle pagine di OpenStreetMap è attivo un nuovo strumento per l’editing online delle mappe. L’ultimo arrivato, nella grande famiglia degli editor per OSM, sia chiama iD e andrà ad affiancare il buon vecchio Potlach, noto a chiunque abbia fatto un po’ di inserimenti e di modifiche sui dati OSM.

Si tratta di uno strumento che, a fronte della leggerezza e della chiarezza a livello di interfaccia utente, nasconde una discreta dose di tecnologia, tutta Open Source, nata dal lavoro volontario di alcuni sviluppatori, e proseguita con un notevole sostegno economico (parte dei 545.000 $ offerti dalla Knight Foundation), sotto il coordinamento di MapBox.

L’aspetto più evidente di iD, e che ne ha motivato la realizzazione, è un approccio “assistito” all’editing. Ogni azione viene guidata tramite suggerimenti e le scelte degli oggetti, e delle relative proprietà, da associare agli elementi geometrici inseriti, viene semplificata con l’ausilio di moduli d’inserimento intuitivi e facilmente comprensibile anche ai meno esperti, lasciando tuttavia la libertà di integrare le informazioni di base con tag più avanzati.

Ma cos’è che ha spinto la Knight Foundation e MapBox a finanziare questo progetto? La notizia ha colto l’attenzione anche di testate giornalistiche non del settore quali Mashable e TechCrunch, ed entrambi hanno voluto sottolineare la sfida alle altre realtà commerciale del mapping online, Google in primis. In effetti la mossa operata con l’introduzione di iD ha reso ancor più evidente il mix di qualità del progetto OpenStreetMap : open data, strumenti tecnologici efficaci e robusti, crowdsourcing a scala globale, opportunità commerciali. Le ho elencate in quest’ordine non per caso.

La scelta, operata fin dall’inizio, di associare al dato OSM una licenza aperta (inizialmente CC-BY-SA, poi trasformata in ODbL) è stata senz’altro il carburante che ha dato il via al tam-tam globale, garantendo agli utenti una totale trasparenza sull’impiego dei dati liberamente forniti. Questa caratteristica, oltre ad essere motivante per molti utenti, è unica tra i progetti di mapping crowdsourced a scala globale (Google Map Maker, per dirne uno, i dati se li tiene ben stretti!).
La totale trasparenza e il pubblico dominio hanno fornito una forte spinta motivazionale, tanto all’utente amatore quanto agli sviluppatori e ai sistemisti. Lo sviluppo di un set di tecnologie ben focalizzate ed efficaci in grado di gestire tutte le fasi di vita del dato, e di intercettare e rispondere ad un’utenza estremamente variegata (dall’azienda, all’operatore in aree di emergenza, al byker appassionato), ha avviato il circuito virtuoso. Ecco che dal computer di Steve Coast, OSM ha invaso il mondo.
Con quali soldi è stato possibile realizzare tutto ciò, e chi sostiene oggi OSM? Qui sta l’emblematicità di OSM, e che io ritrovo esemplificata nella nascita di iD: un progetto nel quale tutti possono trarre benefici, dagli utenti appassionati alle aziende (fino alla scala di Foursquare, Evernote, MapQuest, la stessa MapBox e tante altre). E più tutti ne traggono beneficio, più ognuno è disposto a contribuire: l’utente a mappare, l’azienda a fare il proprio business col supporto dei dati OSM e a sostenere il progetto (se l’azienda è saggia e lungimirante!). OSM sarà un caso un po’ unico, soprattutto di questa portata, ma dimostra, insieme ad altri progetti simili (basta pensare a Wikipedia) che è un processo realizzabile e sostenibile, con un modello di business non utopico.

In sintesi, e semplificando un po’, un buon editor rende la vita più semplice all’utente, e magari ne attrae di nuovi -> MapBox può contare su una maggiore base di contributori e di dati -> MapBox sostiene lo sviluppo di iD

Chissà se un giorno riusciremo a innescare un processo virtuoso simile anche per gli Open Data in Italia

Buona mappatura a tutti con iD!

Giovanni Allegri


1 dicembre, 2010 | di

Venerdì scorso Caterpillar, la nota trasmissione radiofonica di Radio 2, ha lanciato il Primo concorso fotografico di immondizia. Cirri e Solibello invitavano gli ascoltatori a chiamare e testimoniare la presenza di cumuli di spazzatura in ogni angolo di Napoli. Inutile dire che le telefonate sono state tantissime, e oggi sul sito web della trasmissione si possano già “ammirare” gli scatti che immortalano la drammatica situazione nella quale versa una delle città più belle al mondo.

A chi chiamava, i conduttori chiedevano anche di indicare il luogo nel quale i sacchetti di immondizia giacevano, oltre che di mandare per email una foto. A me, come sarebbe accaduto anche a voi dall’animo geografico, è subito balenata l’idea di immaginare una mappa che mostrasse la “distribuzione” di questi cumuli di immondizia, anche perchè in TV o in radio sentiamo spesso citare cifre riguardanti il “tonnellagio” di rifiuti in giro per Napoli, ma manca totalmente la rappresentazione spaziale di questo “fenomeno”.

L’idea di “Rifiutiamoci” mi è venuta leggendo Surplus cognitivo , l’ultimo libro di Clay Shirky, nel quale l’autore, parlando tra l’altro anche di Ushahidi, fa capire molto chiaramente perché i fenomeni di “crowdsourcing” funzionino così bene quando consentono alla gente di poter manifestare la propria gioia o il proprio disagio in maniera collettiva.

(Grazie a Napo per la segnalazione del video)

Giriamo per strada e siamo sempre più afflitti nel vedere cumuli di immondizia ad ogni angolo di strada, e non riusciamo a sfogare rabbia e frustrazione se non imprecando sul momento, tra passanti apparentemente rassegnati, oppure scattando una foto e mandando un twit geotaggato come faccio talvolta io…

E se lo facessimo in tanti? E se usassimo un hashtag per raccogliere implicitamente in un unico flusso comunicativo queste urla virtuali, queste segnalazioni? E se tutti geotaggassimo i twit e “qualcosa” consentisse di visualizzarli tutti su una mappa? E se tutte queste segnalazioni potessero diventare una sorta di patrimonio comune, per capire come sta evolvendo la situazione nel tempo, dove e quando i rifiuti non solo si accumulano, ma poi magari vengono portati via? Si tratta di hacktivismo, ne abbiamo parlato molte altre volte qui su TANTO.

Ushahidi, ecco la soluzione!

Da tempo desideravo trovare un’occasione per cominciare a cimentarmi con la piattaforma basata su web di Ushahidi, ovvero Crowdmap.com e dunque, tornato a casa, ho subito creato il deployment che trovate su rifiutiamoci.crowdmap.com, che ho pensato come un progetto di crowdmapping sulla localizzazione dei cumuli di immondizia a Napoli, per dare “un volto” a questa piaga che attanaglia la città da sempre.

Niente di meglio per dare voce a frustrazione e rabbia del cittadino o del turista e canalizzare il desiderio di condividere questi due sentimenti in qualcosa di concreto.

Crowdmap è molto semplice da usare, consente di avere una mappa interattiva sulla quale visualizzare tutte le segnalazioni fatte, e di poterle poi “esplorare” usando criteri temporali, attraverso una timeline dinamica, impostando le date di inizio e di fine del periodo che ci interessa, infine visualizzare in tempo reale il succedersi degli eventi. Le segnalazioni possono anche essere esportate in formato csv, per poterle utilizzare in altri ambiti o analizzare i dati e produrre report.

Cosa troviamo in Rifiutiamoci?

Nel deployment di Rifiutiamoci, ad oggi trovate uno strato informativo denominato “Impianti” che raccoglie l’ubicazione delle discariche (in esercizio, dismesse, da riaprire, in progetto) e gli inceneritori (l’unico in esercizio di Acerra e gli altri tre in progetto). Purtroppo non sono riuscito a recuperare le date di apertura o dismissione delle discariche, pertanto le date delle rispettive segnalazioni sono errate. Né tanto meno il numero degli impianti vuole essere esaustivo, perché ne mancano ancora molti. Anzi, invito chi avesse notizie più aggiornate riguardo gli impianti presenti sul sito, a farlo all’indirizzo email del progetto o addirittura segnalarne di nuovi.

Oltre agli impianti di trattamento e smaltimento dei rifiuti, è possibile segnalare gli accumuli di immondizia sparsi per Napoli che giacciono abbandonati, o addirittura dove ci sono stati episodi di incendio degli stessi, o ancora (cosa positiva e da non trascurare assolutamente) i cumuli di rifiuti ritirati. Queste tre tipologie di segnalazioni, nel loro insieme, riusciranno a fornire nel tempo un quadro della situazione dinamico, chiaro e affidabile.

Infine, sebbene “nascosto”, il deployment Rifiutiamoci eroga anche le segnalazioni sotto forma di GeoRSS che è possibile riutilizzare in una miriade di modi diversi, tra i quali visualizzarlo direttamente in Google Maps…


Visualizzazione ingrandita della mappa

Come possiamo  effettuare quindi le segnalazioni?

Crowdmap/Ushahidi è nato con l’idea di consentire a tutti, ovunque ci si trovi, di fare segnalazioni. Dunque non solo via web o email, ma anche con dispositivi mobili, su piattaforme come Twitter , e perfino con un sempliceSMS da un vecchio cellulare.

Ogni segnalazione, a seconda del canale con il quale arriva, ha bisogno di più o meno lavoro di “back office” per essere validata, ovvero verificare che non sia un “fake” e trasformarla in un punto sulla mappa, cosa che può comportare del tempo in funzione della qualità delle informazioni sulla localizzazione fornite del segnalatore. La veridicità della segnalazione avviene in genere comprovandola con una foto, o indirettamente se la medesima situazione viene confutata da ulteriori segnalazioni mandate da altri cittadini. Ma in genere si fa affidamento alla buona fede… a meno che non si abbia a che fare con dei mitomani :D

Compilando il form web direttamente sul sito è possibile inserire tutte le informazioni utili a descrivere la situazione con poche parole, caricare una foto, linkare un video o anche una notizia, e ovviamente “geotaggarla” inserendo indirizzo e località. Tutto molto semplice e intuitivo.

Inviando una email a rifiutiamoci.crowdmap@gmail.com corredata di tutte le notizie utili e magari qualche foto, in “back office” i curatori del sito creeranno poi la segnalazione.

E poi la maniera più “web 2.0”, ovvero mentre magari vi imbattete in un cumulo di immondizia, dal vostro dispositivo mobile Android, iPhone o Windows usare Twitter per inviare un messaggio geotaggato con relativa foto scattata sul posto. Come assicurarsi che il twit vada a finire in Rifiutiamoci? Basta utilizzare l’apposito hashtag del progetto #rifiutiamoci, ed andrà a ingrossare le fila dello stream ad esso associato.

C’è anche la possibilità di mandare segnalazioni, come dicevo prima, via SMS. Ma al momento si è scelto di non adottare questa modalità, perché troppo onerosa dal punto di vista della gestione in back-office. Ciò non toglie che un domani, se le fila di volontari dietro Rifiutiamoci cresceranno, ci si possa pensare…

Ma che scopo ha Rifiutiamoci?

Rifiutiamoci non ha uno scopo di denuncia “a senso unico”, della serie: ecco dov’è l’immondizia, venite e prenderla! Il problema, come ben sappiamo, è dove metterla e soprattutto cosa farne (riciclo, riuso, per non parlare della teoria rifiuti zero). E le barricate di persone esasperate dalla famigerata sindrome NIMBY, quotidianamente protagoniste delle notizie lo dimostrano ampiamente.

Una quantificazione spaziale del problema, con una mappa costruita non dalle istituzioni (con tutti i problemi di attendibilità delle informazioni per motivi di sicurezza) ma in crowdsourcing dai cittadini, può dare un grande contributo al dimensionamento del fenomeno, alla sua analisi temporale. Un validissimo strumento alla base della pianificazione degli interventi per evitare rischi sanitari ed epidemiologici e per l’analisi di dinamiche estremamente mutevoli, che non potrebbero mai essere efficaci con un approccio che non tenga conto della dimensione spaziale. Ad esempio, diventa fondamentale anche segnalare i cumuli di rifiuti che vengono portati via, in modo tale da riuscire a seguire l’evoluzione della situazione nel suo complesso.

Il progetto ha anche un account Twitter @rifiutiamoci che, oltre ad essere un canale di comunicazione “ufficiale”, raccoglierà in maniera “automatica” il flusso dei twit con hashtag #rifiutiamoci generati dai cittadini hacktivisti. Naturalmente non poteva mancare anche una pagina Facebook.

Insomma, contribuire a Rifiutiamoci è davvero semplice, e potrete in questo modo trasformare la vostra rabbia e indignazione per ciò che sta accadendo a Napoli in qualcosa di costruttivo e utile: dare un volto, anzi una mappa, a un disastro che sta assumendo dimensioni che al momento è davvero difficile riuscire a visualizzare.

Infine, vorrei segnalare un altro interessante progetto di mappatura delle discariche e degli impianti per il trattamento dei rifiuti, avviato già da tempo, al quale ho attinto utilmente informazioni per la loro ubicazione. Chissà che un giorno non riusciremo ad unire le forze, si tratta di www.munnezza.info

Addendum: “Ma così Napoli sembrerà sempre sporca!”

E’ quanto hanno fatto notare alcuni utenti recentemente. Allo stato attuale del progetto Rifiutiamoci infatti, la città potrebbe sembrare più sporca di quanto non sia nella realtà, proprio perché la situazione cambia di giorno in giorno sia in peggio che in meglio. Ma ciò dipende dal tipo di segnalazioni che vengono fatte. Se a Montesanto è stato segnalato un cumulo di rifiuti un determinato giorno, la relativa comunicazione non deve essere cancellata dopo che magari successivamente verranno ritirati. Andrebbe fatta un’altra segnalazione, nello stesso luogo, che appunto testimonia il miglioramento. Del resto il sito consente di visualizzare anche in maniera separata le differenti tipologie di segnalazioni, dunque sia i rifiuti non ritirati che quelli ritirati.

Il problema dunque è che siamo all’inizio del progetto, e la stragrande maggioranza delle segnalazioni è di rifiuti non ritirati. Se un maggior numero di cittadini cominciasse a segnalare anche il miglioramento della situazione, allora il problema non si porrebbe più. L’ideale sarebbe che ogni cittadino attivo utilizzasse quotidianamente il sito, segnalando peggioramenti e miglioramenti nella zona in cui vive o lavora, sistematicamente, ogni giorno.

Il senso di Rifiutiamoci non è quello di mostrare solo il lato peggiore della situazione, ma anche la sua evoluzione in meglio. Ciò può avvenire solo coinvolgendo quanta più gente possibile nel raccontare ciò che accade. E un napoletano che ama la propria città non perderà certo l’occasione di mostrare che l’immondizia sta sparendo dalle strade.

4 novembre, 2010 | di

Ormai il racconto a puntate sulla rivoluzione geospaziale curato dalla Penn State University sta diventando un appuntamento per noi irrinunciabile. Per il primo episodio sono intanto disponibili i sottotitoli.

Non ci sarebbe nulla da dire di più che: guardatelo e godetevelo, ma ci piace comunque sottolineare brevemente alcune delle cose più belle e interessanti che vengono mostrate in questo secondo episodio.

Capitolo 1 – “Creating an interactive City”, ovvero di come Portland sia diventata una delle città più “digitali” degli USA, con ingenti investimenti nelle tecnologie geospaziali e l’iniziativa “civicApps (se avete tempo vale la pena un suo approfondimento) con la quale i cittadini hanno la possibilità di segnalare mediante dispositivi mobili (scatta una foto, localizzala e commenta) situazioni che necessiterebbero di un intervento da parte del Comune. O ancora di come l’augmented reality consenta agli utenti del trasporto pubblico di Portland di essere costantemente aggiornati sugli orari di arrivo dei mezzi.

Nel Capitolo 2 – “Powering Business” un importante corriere afferma come sia fondamentale risparmiare anche un solo miglio di strada, per poter ottimizzare al massimo i costi. E’ per questo che hanno ingaggiato matematici e statistici per poter trovare modi e metodi per definire le rotte che ogni mezzo percorre quotidianamente. E in questo processo, ovviamente, le applicazioni GIS di tracking e routing hanno un ruolo fondamentale.

Avevamo già destato l’attenzione sul fatto che il futuro della medicina è nella geografia, e nel Capitolo 3 – “Finding a Healthy Future” viene dimostrato come l’analisi geografica dei bisogni delle persone, della loro salute e della disponibilità ad esempio di supermercati che vendano “cibi salutari” siano strettamente connesse. Senza trascurare le opportunità di sviluppo economico che l’analisi spaziale porta nella localizzazione di nuovi negozi.

Concludo con una frase di Cowen:

Nuove persone, nuove organizzazioni stanno costruendo applicazioni che non avremmo mai immaginato prima.

Applicazioni – ma soprattutto persone – che stanno crescendo in numero, e che sempre più ci stupiranno…

16 settembre, 2010 | di

Lo so, sembra soltanto un titolo ad effetto, ma in realtà è molto più descrittivo di quanto si possa pensare. Nel Maggio del 2009 Pietro ci ha infatti raccontato di “un ambizioso progetto con il quale diffondere la consapevolezza della coscienza geografica”, tramite la produzione di 8 video brevi e di un documentario di 60 minuti.

Il nome di quel progetto è proprio  “Geospatial Revolution Project” ed è uscito finalmente il bellissimo primo episodio. Agli esperti di geomatica non sembrerà che ci sia nulla di nuovo, ma l’obiettivo del progetto è altro:

The mission of the Geospatial Revolution Project is to expand public knowledge about the history, applications, related privacy and legal issues, and the potential future of location-based technologies.

Spiegare bene un concetto, con parole comprensibili a tutti, è di per se qualcosa di  rivoluzionario e se “il buon giorno si vede dal mattino”, prevedo un futuro molto soleggiato. Nel film ci sono molte facce note e potenti di questo mondo, ma voglio sottolineare che il capitolo più lungo e più bello di questo primo episodio – denominato “Why We Need It” – è dedicato quasi interamente all’importanza che l’informazione spaziale e il suo impiego corretto hanno nella gestione di drammi umanitari, come quello conseguente al terremoto di Haiti, del 12 Gennaio del 2010. In quell’occasione i terminali mobili (telefonini e GPS), i social network e progetti prodigiosi come Ushahidi e OpenStreetMap hanno contribuito al salvataggio di molte vite nel dopo terremoto.

Prima di chiudere due promesse. La prima è quella già lanciata da Pietro, e che confermo: vi daremo conto dei prossimi episodi e proveremo a farvene sempre una brevissima sintesi. La seconda è che scriveremo almeno un post interamente dedicato a Ushahidi, in cui descriveremo la piattaforma tecnologica su cui si basa, come si installi e si gestisca.

Ci sarebbe altro da dire, ma sarà per la prossima. Buona visione!!!

11 maggio, 2009 | di


Ci provano a farlo quelli della Penn State University con Geospatial Revolution Project.

Si tratta di un ambizioso progetto con il quale diffondere la consapevolezza della coscienza geografica in un mondo nel quale ormai (quasi) tutti sanno cosa siano Google Earth e Streetview.

Utilizzare uno strumento abitualmente, infatti, non implica sempre conoscere cosa ci sia dietro, dalla tecnologia alle persone, ed essere consapevoli di ciò che si fa – come spesso amiamo dire qui su TANTO – è molto più entusiasmante di farlo e basta.

Il progetto – totalmente web-based – prevede la produzione di otto episodi video, ciascuno dei quali racconterà una storia al centro della quale c’è la geografia e gli strumenti di esplorazione del territorio. Si tratta di storie che hanno un filo rosso in comune, e che culmineranno nella realizzazione di un documentario di 60 minuti.

Il video di presentazione del progetto è già di per sé entusiasmante, raccontando di come satelliti, strumenti e tecnologie geospaziali influenzino ormai ogni fondamentale attività umana. Dalle deprecabili guerre, che hanno sempre bisogno di dati spaziali aggiornati e dettagliati, alla violazione dei diritti umani, alle questioni ambientali, alle attività di emergenza e soccorso. Il terremoto abruzzese ha lanciato alla ribalta il concetto di interferometria SAR – molte fonti ne danno notizia – e lo stesso PCN ha messo a disposizione ortofoto recenti delle zone colpite.

Come la stessa PSU afferma:

Gli utilizzi fondamentali di queste tecnologie richiedono una educazione del pubblico, volta alla comprensione sia delle applicazioni stesse che delle questioni relative alla privacy e alla sicurezza che esse sollevano.

Non rimane che attendere i primi video realizzati, ne daremo notizia sempre su questo schermo.

Vorrei in conclusione fare qualche piccolo appunto riguardo la nostra situazione, quella italiana intendo. Mentre altrove si spendono risorse per mettere su iniziative volte alla disseminazione della consapevolezza, qui da noi si lascia che importanti pezzi della scienza geografica lentamente muoiano, come è il caso dell’Istituto Geografico De Agostini, o dello stesso IGMI, colpevoli secondo alcuni di non essere riusciti a stare al passo con la tecnologia.

Certo, magari in quelle realtà devono fare i conti con una scarsa lungimiranza, con il fatto che ormai più nessuno compra una carta stradale per 10 euro ma preferisce spenderne 200 per un navigatore GPS, ma la questione è sempre la stessa: la gente non sa, non si chiede cosa c’è dietro una mappa, che sia cartacea o digitale.

The location of anything is becoming everything…



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